A margine dell'incontro con i giovani ci siamo fermati con don Ettore che ci ha parlato della sua vita e della sua attività.
Stefano Congiu, Giulia Fodde, Gaia Licheri
Cos'ha
fatto nella sua vita?
Quando
sono diventato sacerdote, 50 anni fa, ho iniziato a fare il parroco
in una chiesa come tutti i preti. Dopo 2 anni ho capito che forse
avrei fatto meglio il mio servizio occupandomi della categoria dei
più bisognosi, allora sono subito andato a fare i cappellano in
carcere, e a conoscere i ragazzi che lì si trovano. Dopo due-tre anni
ho costruito, in un terreno che avevo ereditato da mio padre, situato
su una collina, una comunità molto grande, per accogliere ragazzi
che possono scontare la pena fuori dal carcere. Il mio vantaggio è
che li conosco dentro, li faccio riflettere, capire. “Vuoi cambiare
vita?”, gli chiedo.
Perché se stai in carcere, 4-5 anni, esci e sei etichettato come
delinquente; se stai in comunità riprendi gli studi, gli sport, sei
completamente inserito nella società. Fino a oggi sono passati 110
ragazzi, di cui solo 4 sono tornati nel mondo della devianza; il
resto, anche condannati per reati molto gravi, come l'omicidio,
stanno facendo una vita regolarissima.
Questo
vuol dire che i ragazzi a cui si risponde già nell'adolescenza, ai
loro bisogni, che hanno espresso in malo modo, possono essere
recuperati, ecco perché io combatto affinché i ragazzi non vadano in
carcere, ma vengano nelle nostre comunità, che stanno sorgendo, dove
possono riprendere la scuola, svolgere attività lavorative, fare
corsi professionali, ma sopratutto riprendere legami affettivi.
Questa
è la mia sfida.
Se
invece li teniamo in carcere, escono che sono delinquenti e la gente
non gli accoglie più.
Com'è
la vita in carcere?
In
carcere si vive con ragazzi che hanno gli stessi problemi, parlano
tutti dei loro reati: il carcere è negativo perché si mettono
insieme persone con gli stessi problemi, dove ciascuno tende a essere
più “togo” dell'altro e cerca di esserlo facendo più cose
negative.
Quindi
è come mettere insieme tutte le mele marce, è chiaro che si
contagino e peggiorino. Invece, se la mela marcia la metto insieme
alle buone, cambia lei. In comunità ci sono persone che non hanno
commesso reati, come educatori e ragazzi che vogliono cambiare.
Il
carcere non aiuta, ci devono stare i grandi delinquenti, ma non i
ragazzi, perché non sono ancora criminali, ma possono diventarlo e
io combatto perché a chi ha sbagliato venga data un'altra risposta
educativa, contenitiva, venire in comunità e riprendere in mano la
propria vita: è la mia esperienza da ormai 25 anni.
Si
rende conto che il suo messaggio è in esatta controtendenza del
messaggio generale?
Si,
infatti il problema è cambiare la nostra mentalità, l'80% della
gente dopo quello che è successo dice solo: galera, galera. Ma tanto
quando esce, hai solo un delinquente in più.
Dobbiamo
comunicare agli adulti che la soluzione non è il carcere.
Stefano Congiu, Giulia Fodde, Gaia Licheri
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